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DEEPLE#3 It’s a Jamaican Thing

Siamo ormai arrivati alla terza tappa del nostro viaggio, viaggio che ci porta a visitare luoghi vicini e lontani, a sentire vibrazioni nuove, ad annusare rappresentazioni e significati nascosti di quel meraviglioso ed eterogeneo universo che è la Musica. Questo mese ci intratterremo in un luogo assolato e ondeggiante di cui si sente l’eco profondo provenire dai sound systems. Una verde isola nel Mar dei Caraibi, maliziosa e suadente.

Siamo in Jamaica.

La scelta di questa meta non è solo dovuta ad un’estensione della mia curiosità per la musica del mondo, ma si tratta anche di un piccolo contributo per un evento come quello del Torino Dancehall Movement, che quest’anno purtroppo non potrà svolgersi. Noi lo celebriamo così, andando alla radice, destreggiandoci tra alcuni dei numerosi generi musicali di questa terra ricca di ritmi e atmosfere, una piccola enciclopedia introduttiva per iniziare gradualmente a conoscere quest’isola così calda.

Incominciamo da due dei generi tradizionali di queste ed altre terre mesoamericane: Mento e Calypso, spesso confusi ma con due identità in realtà ben distinte.

La maggior parte della musica caraibica ha origine in Africa, in particolare il Calypso ha iniziato a svilupparsi quando gli schiavi della West Africa sono sbarcati a Trinidad e Tobago. Il canto era diventato un modo per comunicare, in quanto agli schiavi non era concesso parlare tra loro. Anche di fronte al bando delle percussioni da parte delle autorità britanniche nel 1881, i musicisti trovarono il modo di suonare usando padelle, coperchi di bidoni e barili di olio. Questa musica è poi, con la liberazione, divenuta simbolo di festa, soprattutto nei Carnevali di Tridinidad, nelle Bahamas e Barbados. Anche se ora viene associata a contesti frivoli, il Calypso rimane una delle tradizioni musicali più politiche, la quale mischia cadenze gioiose con temi sociali seri e sottili, il tutto attraverso preghiere, satire o lamenti. Negli anni ’70, ad una scena prettamente maschile, si aggiunse Calypso Rose considerata the Mother of Calypso, i cui testi parlavano di questioni sociali come razzismo e sessismo. Altri artisti celebri sono: The Mighty Sparrow, Red Plastic Bag, Lord Kitchener, Bunji Garlin e molti altri.

Nonostante venga classificato come parte della world music, il Mento è in realtà puramente jamaicano, ed in quanto tale si differenzia dal Calypso, negli strumenti utilizzati, nel ritmo, nello stile vocale, nelle armonie e nei testi. Alcuni strumenti tipici sono ad esempio la chitarra acustica, il banjo, clarinetti e flauti fatti con il bamboo ed una particolare percussione chiamata rumba box. I testi sono spesso e volentieri molto divertenti, ritraggono le piccole o grandi questioni della vita in Jamaica, dalle ricette culinarie alle difficoltà delle tentate migrazioni in Inghilterra o la particolare relazione tra uomini e animali. Diciamo che lo Humor è fortemente presente all’interno di questo genere, spesso includendo testi licenziosi e ricchi di doppi sensi, il tutto condito da un sound rurale e nasale tipico che rieccheggia chiaramente l’eredità Africana.

Passiamo ora a parlare di un genere molto più riconosciuto a livello mondiale: lo Ska, una combinazione tra Calypso, Mento, Jazz americano e R&B, comparso negli anni ’50. Una delle caratteristiche peculiari dello Ska è la walking bass line accentata in levare. Negli anni ’60, diventa il genere dominante, piacevolmente ballabile, frutto anche di quel senso di ottimismo e possibilità che seguirono l’indipendenza dalla stessa Gran Bretagna nel 1962. Nonostante sia molto difficile risalire in modo concorde ad un preciso fondatore, il chitarrista Ernie Ranglin sembra essere l’inventore della tecnica dello ska chop, mentre Prince Buster, considerato il padre dello ska, con la sua canzone Shaking Up Orange Street, omaggiò quella parte di Kingston diventata la Mecca musicale dello ska sound. Persino l’origine del termine Ska è difficile da tracciare anche se una delle ipotesi più accreditate lo ritiene derivato dal tipico skat-skat-skat suono delle chitarre elettriche. Inoltre, risulta essere il precursore di un altro genere creato poco dopo, ovvero il Rocksteady, nato intorno al 1966.

Il termine Rocksteady viene da uno stile di danza, menzionato nella omonima canzone di Alton Ellis, molto meno energetico di quello ballato sullo ska. Alcuni degli elementi di questo genere provengo da Jazz, suoni africani e latini. È facile riconoscerlo per i ritmi offbeat e gli accordi staccati suonati da chitarra e pianoforte. In particolare, l’accento sul secondo e sul quarto battito vengono ancora più enfatizzati rispetto allo ska, vi è una forte ispirazione latina visibile nei click suonati sul rullante ed il tempo viene percepito come rallentato. Anche a causa dell’influenza americana, molti testi parlano d’amore, ma anche della mancanza di cibo, rifugio ed occupazione. Questa sofferenza diffusa portò poi alla nascita di una subcultura ribelle nota come rude boys i quali manifestarono dissenso politico attraverso la musica e canzoni come Cry Tough degli Alton and the Flames. Nonostante il breve periodo di produzione, questo genere influenzò moltissimo reggea, dub e dancehall.

Parliamo dunque proprio del primo genere che si sviluppò grazie a tale influenza: il reggea, stile che diventato dominante negli anni ’70 e che generò un’ondata di interesse anche in Gran Bretagna, USA e Africa. Il nome reggae deriva dal “rege-rege”, che a sua volta proviene da rags ovvero stracci, poiché rappresenta un miscuglio di molti dei generi musicali visti sopra.

Considerata la voce degli oppressi, il raggae, crebbe dalle radici della cultura dei rude boys, portando sulle spalle il fardello di testi sempre più politicizzati e riferiti all’ingiustizia sociale ed economica, ma parlando anche d’amore e di donne. Alcuni dei nomi più importanti sono: Toots and the Maytals, Peter Tosh, the Wailers e Bob Marley, interpreti del disagio dei più poveri e marginalizzati.

Durante questo periodo si generò inoltre una connessione tra la musica ed il movimento Rastafariano, il quale oltre ad incoraggiare il ritorno in Africa della diaspora causata dalla colonizzazione e dallo schiavismo, militava per il possesso di pari diritti e traeva ispirazione dal kumina, un’antica tradizione religiosa basata sulla comunicazione con gli antenati. Questo legame portò anche all’arricchimento dei testi d’amore di una dimensione universale e cosmica, un amore spirituale, verso il prossimo e Dio, Jah.

Una forza anche rivoluzionaria e ribelle verso tutto ciò che vi si opponeva, come la violenza, la povertà, il razzismo e l’oppressione del governo. Un sottogenere del reggae è il Dub, anche se il suo sviluppo si estende ben oltre tale ambito.

Si tratta prevalentemente di remix strumentali di registrazioni esistenti, tramite la rimozione delle parti vocale e l’enfasi posta su batteria e basso. Altre tecniche includono l’uso additivo di echi, riverberi, delays e voci o strumenti modificati. Osbourne, King Tubby, Ruddock, Lee Scratch Perry, Errol Thompson e altri, vengono considerati come pionieri di questo genere così malleabile, responsabile dell’aver influenzato moltissima musica susseguente, come rock, disco, hip hop, house, techno, ambient, trip hop, jungle, Drum & bass e Dubstep. Il verbo to dub in inglese significa fare una copia ed il processo tramite cui ciò avveniva era quello di raccogliere materiale preregistrato, modificarlo, arricchirlo, rallentarlo e riregistrarlo sulla B-side di un 45 giri, al fine di creare quel sound così popolare nei sound systems, ovvero la principale fonte di intrattenimento in Jamaica, specialmente per le classi povere che non potevano permettersi i club più costosi di Kingston. Il termine rimane comunque associato anche a significati diversi, tra cui quello di danza erotica e rapporto sessuale.

È venuto ora il momento di parlare di quel particolare stile di canto che tutti noi associamo alla musica jamaicana e che così tanto ha influenzato la nascita del rap e degli MCs. Sto parlando del toasting. Tra la fine degli anni ’60 e i ’70, il toasting diventa parte integrante dell’intrattenimento offerto dai sound systems. Per chi non lo sapesse si tratta di deejays e produttori itineranti con grandi casse e dischi da riprodurre per le strade di Kingston. L’idea venne sviluppata da Count Matchuki, il quale si ispirò ai deejays americani nelle stazioni radio. Quelli come lui, lavoravano per produttori mixando le ultime hits ai parties e aggiungendo toasts e vocals direttamente sulla musica. Questi toasts solitamente erano caratterizzati da battute, canti accennati, stridii e narrazioni ritmate. Una grande contributo lo ha dato anche l’ingegnere del suono Ousbourne Ruddock o King Tubby, creando delle backing tracks senza voci per renderle adatte all’improvvisazione. Con l’arrivo degli anni ’80, il toasting sbarcò in Inghilterra e poi nel resto del mondo.

 

Il nostro viaggio termina con l’arrivo della Dancehall, ascoltabile già alla fine degli anni ’70 inizialmente come una versione più variegata del reggae, grazie anche all’uso sempre più diffuso di strumenti digitali e ritmi più veloci che cambiarono il suono drasticamente.

L’affermarsi del deejay Yellowman all’inizio degli anni ’80 sancì la transizione dal reggae a questo nuovo genere che riempiva le piste dei nightclubs. Oltre ai testi esplicitamente politici di canzoni come Operation Eradication e Soldier Take Over, facevano parte del suo repertorio anche testi conosciuti per la loro slackness ovvero un gergo locale per dire licenziosi, i quali dominarono gli anni ’80 e ’90 insieme al gun talk di artisti come Shabba Ranks, Ninjama Bounty Killer, Lady Saw e altri.

Intorno agli anni ’90 comunque si nota un ritorno dell’influenza del movimento rastafariano a condire di nuovo le liriche ballate nelle Dance halls di Kingston. In una società fortemente divisa dai razzismi supportati dalla cultura europea allora egemone, stigmatizzando quella africana, I club erano spazi di solidarietà per coloro lasciati ai margini, una voce per chi era taciuto.

La descrizione di questo genere non è completa senza il pizzico di controversie ad esso associate. Infatti, i testi sono stati spesso accusati di essere promotori di misoginia, violenza, oggettivazione della donna, abuso e a volte anche omofobia. Questo portò molti a vedere la

dancehall come un catalizzatore di violenza, ma nonostante questo rimane una musica estremamente vibrante ed espressiva, la quale ha dato voce ai margini inascoltati della società, una vera e propria ribellione.

Eccoci alla fine di questa lunga corsa. Ci sarebbe da parlare molto di più di ogni genere per coglierne tutte le piccole sfumature, ma spero comunque di avervi presentato nel modo migliore possibile questo mondo così ampio. Quello che è certo è che più si scava nella terra della musica più ci si ritrova le mani piene di storie, persone, culture, battaglie, scontri e festeggiamenti. La musica è indissolubilmente legata al contesto culturale, geografico e storico di coloro che la celebrano, o perlomeno quella vera.

Peace

Umana

STUDIO21MEETS: TORINO DANCEHALL MOVEMENT

Abbiamo fatto due chiacchiere con due realtà, due menti, due mondi e due lati della stessa medaglia, di chi stiamo parlando?!…. “Supa Vi” e  Major, uniti nel progetto comune TDM – Torino Dancehall Movement.

Chi siete?

A: Ciao, sono Alessandro!

V: Ciao, sono Vittoria.

A: Sono un Dj, organizzo eventi, faccio parte di Kaya Sound e insieme Supa-Vi sono co-fondatore del Torino Dancehall Movement.

V: Direttrice artistica di Studio 21 Street Dance School e creatrice e fondatrice della Ladykiller crew e co-fondatrice, insieme a Major, di Torino Dancehall Movement.

Com’è nato il TDM?

A: Ci siamo conosciuti nel 2013. Io conoscevo la struttura Studio 21, vedevo che facevano corsi di dancehall e mi era venuta la curiosità di andarla a conoscere… Diciamo che forse il primo passo l’ho fatto io, tra virgolette. Le scrissi, ci siamo trovati, abbiamo fatto due chiacchiere; l’alchimia è nata da subito, e dopo qualche mese – a gennaio 2014 – è partita la prima edizione di Torino Dancehall Movement.

V: Sì, erano già due realtà molto conosciute in Torino e in Italia e quindi abbiamo pensato e deciso di entrare in questa grande avventura che è il Torino Dancehall Movement insomma.

Cos’è il TDM e com’è organizzarlo?

A: Organizzare il Torino Dancehall Movement, per esperienza personale, è un evento totalmente al di fuori da tutto il resto che ho fatto. Siamo due realtà che si fondono, tante persone insieme. È un evento che necessita di tanto tempo prima di essere organizzato: l’evento lo facciamo gennaio ma noi già da luglio siamo operativi su questo evento. Però la soddisfazione che riesce a darti vedere ragazzi giovani, ballerini e appassionati tutti insieme nello stesso luogo penso che sia impagabile.

V: Infatti da questo movimento che abbiamo unito abbiamo poi creato proprio il Torino Dancehall Movement, ed è stato il primo evento in Italia di dancehall dove si racchiudevano… Si racchiudeva la cultura dancehall giamaicana a 360°, quindi c’era tutta la parte dei dancers e tutta la parte del party, che è una cosa che è assolutamente immancabile in un evento.

A: Assolutissimamente.

La pandemia: come state gestendo le cose?

A: Purtroppo quest’anno, con il discorso Covid e con la pandemia, anche noi ci dobbiamo fermare, ed onestamente è il grosso peccato è… Per come la vedo io, il Torino Dancehall Movement a gennaio è il Capodanno, quindi è come se non festeggiassimo il Capodanno, come se non festeggiassimo un ritrovo. Perché il Torino Dancehall Movement è anche il fatto di capire com’è la realtà nostra a Torino, il nostro movimento. Quindi quest’anno non sapremo bene come sarà, ma siamo già pronti per le prossime; quindi il Covid ci potrà fermare quest’anno, ma il progetto andrà avanti assolutissimamente.

La vostra edizione preferita del TDM?

V: L’edizione che più mi è rimasta nel cuore… Ovviamente tutte, nel senso che ogni edizione è stata personale, è stata unica ed ineccepibile. Però credo che l’edizione che più mi è rimasta nel cuore, perché è stato proprio un super successo, è stata la terza edizione nel 2016, dove abbiamo avuto l’onore di poter ospitare Gappy Ranks. È stato incredibile! Se vado ancora a pensare… Se ripenso un po’ ancora a quei momenti, insomma, è stato da pelle d’oca, anche perché l’evento è durato fino a mattina inoltrata quindi…

A: Una maratona!

V: Maratona, sì.

A: Penso che… Uno: dobbiamo sottolineare il fatto che col Torino Dancehall Movement ad occhio e croce più di 1000 persone saranno passate a Torino, ma anche di più, tra workshop, feste… Ogni anno ha avuto la sua particolarità, però sì, anch’io penso che la terza, per completezza, è stata quella che più ha raggiunto l’obiettivo, l’idea finale del Torino Dancehall Movement, quindi sì sì, assolutissimamente.

V: Proprio dell’idea iniziale, quindi del progetto del Torino Dancehall Movement.

A: Confermiamo.

Cos’avete in serbo per il prossimo?

V: Torino Dancehall Movement non si ferma, quindi siamo già in attivo per organizzare l’ottava edizione, che sarà – vi dico già solo “super” –. Quindi già cominciate a prenotare i biglietti, cominciate a prenotare gli hotel, cominciate già a pensare a cosa farete il prossimo gennaio (2022 purtroppo, causa pandemia). E quindi, ragazzi, che dire…

A: Che dire, salutiamo quest’anno, quindi il 2022 sarà una doppia edizione tutto in uno. Quindi vi aspettiamo al Torino Dancehall Movement! Seguite i nostri canali Facebook, YouTube, Instagram di Kaya Sound, Studio 21, Torino Dancehall Movement e che la Giamaica sia con voi. Up up up!


STUDIO21 PLAYLIST by Mad Mike